Le rivoluzioni che hanno fatto la città di oggi
Perché Pordenone è Pordenone? Come mai si presenta così com’è oggi? Quali sono gli eventi e i processi storici che la hanno lasciato l’impronta? Un dato evidente che emerge, guardando le statistiche, è la straordinaria crescita demografica della città nel secondo dopoguerra. Un fenomeno che affonda le radici più di un secolo fa.
Numeri e gente
Scartabellando tra le carte dei censimenti, Pordenone fino alla fine dell’Ottocento arrivava poco oltre i diecimila abitanti (11.152 nel 1881, 13.642 nel 1901). Era una cittadina di belle speranze, anziché una vera città. Un primo consistente balzo in avanti si registra nel primo decennio del ’900 (18.141 abitanti nel 1911, +33%) ed è collegabile all’attività delle industrie tessili. Non sarà una coincidenza se proprio all’inizio del secolo il Cotonificio Amman aveva ritenuto opportuno costruire un edificio-dormitorio da quasi 300 posti, per ospitare i lavoratori (più correttamente: lavoratrici) che quotidianamente raggiungevano la città dalla campagna per lavorare.
Poi la guerra, l’emigrazione, la grande crisi economica mondiale e l’altra guerra frenarono l’espansione della cittadinanza, mantenendola su tassi più contenuti (21.927 abitanti nel 1921, 27.171 nel 1951).
La bomba demografica espose poco dopo: nel 1961 l’Istat registrava 27.171 abitanti e dieci anni dopo addirittura 47.364. In pratica, nel giro di vent’anni, l’incremento raggiunse complessivamente il tetto di circa il 75%! Un dato che non ha confronto con nessun’altra realtà della regione e che assume toni ancora più decisi se pensiamo che il flusso immigratorio interessò anche i comuni limitrofi, specialmente negli anni ’60. Tra il 1961 e il 1971 Porcia passò da 7.374 a 11.517 abitanti (+56%), Cordenons da 9.744 a 12.962 (+33%) e Roveredo in Piano da 1.602 a 2.410 (+50%).
Per avere un termine di confronto, nello stesso decennio Spilimbergo (una cittadina di media dimensione, ma estranea alle dinamiche pordenonesi) passava da 9.258 a 10.017 abitanti, con un incremento pari soltanto all’8%. E non parliamo di quello che si è verificato nei paesi di montagna, letteralmente svuotati proprio a causa dell’attrazione esercitata da Pordenone, oltre che dall’emigrazione all’estero: Claut, ad esempio, dal 1961 al 1971 è passato da 2.366 a 1.789 abitanti: il 24% in meno!
Ancora al giorno d’oggi, con una tendenza demografica stabile o addirittura negativa, il conurbamento pordenonese, formato dalle quattro località ormai praticamente fuse senza soluzione di continuità, registra una popolazione di circa novantamila abitanti.
Il contesto economico
Il grande boom è principalmente figlio del grande sviluppo industriale della città, un fenomeno assai conosciuto, che è diventato ormai parte fondante del “mito” pordenonese. Ma un pur piccolo approfondimento è necessario, perché sotto la superficie la realtà era piuttosto complessa. A fare da volano furono alcune aziende, nate come piccole realtà artigianali e sviluppatesi poi in forma di industria, sia per merito delle capacità manageriali dei proprietari (nomi come Zanussi, Savio, Locatelli sono noti anche ai bambini), sia grazie a un contesto nazionale ed europeo molto favorevole, dove si diffondeva un nuovo benessere basato sulla disponibilità di contante. La Savio passò dai meno di duecento dipendenti del 1950 agli oltre 1.700 del 1970. Allo stesso modo la Scala passò dalle poche decine di lavoratori negli anni dell’immediato dopoguerra ai 2.700 di fine anni Sessanta. Per non parlare della Zanussi, un colosso di livello internazionale.
Queste aziende non si limitarono a costruire il proprio successo, ma crearono anche terreno fertile per il sorgere di altre attività (sia di indotto sia completamente slegate dalla “madre”): una specie di contagio, in cui diversi operai si reinventarono a loro volta imprenditori. Il tessuto economico pordenonese si presentava perciò molto articolato e vivace, anche al di là e… al di sotto dei grandi nomi.
Parallelamente, però, bisogna registrare il declino di altre grosse aziende, quelle del settore tessile, che pure aveva fatto da traino per decenni all’economia locale. Il 1954 in particolare fu un annus horribilis, tra annunci di chiusure, licenziamenti, manifestazioni di piazza, scontri tra operai e polizia. Solo dopo complesse trattative venne trovata una mediazione, che prevedeva in sostanza un migliaio di licenziamenti (più o meno mascherati con formule giuridiche diverse). Né molto meglio se la passava l’altra ditta storica, la Galvani, che negli anni Settanta si avviò su una china discendente.
Non vanno però dimenticati altri due elementi che contribuirono a incentivare l’immigrazione a Pordenone. Uno è dato dalla massiccia presenza delle forze armate sul territorio (caserme, poligoni di tiro, base di Aviano), con il conseguente insediamento in città dei quadri sottufficiali. L’altro è dato dal ruolo amministrativo assunto dalla città negli anni Sessanta (1964 istituzione del Circondario; 1968 della Provincia), con l’insediamento dei quadri burocratici.
Urbanizzazione spinta
Il boom demografico comportò una serie di conseguenze nella struttura urbana stessa. Per poter accogliere la massa degli immigrati, ma anche per venire incontro alle comodità della vita moderna (l’acqua corrente comportava la realizzazione di stanze da bagno; il riscaldamento di una sala per il bruciatore; l’automobile di un’autorimessa; gli elettrodomestici di una cucina più grande) si procedette da un lato a cementificare grandi aree di periferia, senza tenere sempre in debita considerazione né la tutela ambientale né la sicurezza idrogeologica (con alcuni quartieri costruiti perfino su superfici esondabili, esposte alle bizze del Meduna, come si rivelerà drammaticamente nel corso dell’alluvione del novembre 1966); dall’altro costruire strutture nuove in centro, senza la necessaria considerazione per il patrimonio storico.
Così, mentre vecchi edifici venivano abbattuti e nuovi grattacieli sorgevano, cambiava la faccia della città e la sua skyline, fino ad allora caratterizzata quasi solo dai campanili delle chiese e dalla guglia del municipio, verrà dominata dai profili dei vari grattacieli, mentre la superficie urbanizzata aumenta in misura esponenziale (attualmente il 60% del territorio comunale è edificato).
La “pordenonesizzazione”
L’arrivo di grandi masse di persone dalla campagna non comportò un mero aumento numerico della popolazione, ma anche a un cambiamento culturale e sociale. Ai nuovi residenti la città offriva lavoro e servizi (tra il 1950 e il 1951, ad esempio, prese avvio il sistema di trasporto pubblico urbano), ma soprattutto uno stile di vita. Pordenone voleva dire negozi, locali pubblici, spazi di aggregazione, occasioni di confronto, ma anche l’opportunità di essere nel “luogo che conta”, dove si prendono le decisioni, dove le novità arrivano prima.
La portata di questo fenomeno rischia di sfuggire agli uomini di oggi, abituati a vivere connessi e a muoversi senza fatica da un luogo di interesse ad un altro. Ma negli anni Cinquanta e Sessanta la vita quotidiana viaggiava su binari diversissimi: nei paesi si cominciava appena ad asfaltare le strade, la tecnologia era rappresentata dalle radio e da pochi telefoni, la gente si muoveva per la maggior parte in bicicletta o addirittura con il carro trainato dagli animali, i negozi vendevano i generi alimentari a peso o a moneta (10 lire di caffè) e la stragrande maggioranza delle persone viveva di agricoltura.
Ciò spiega il successo di Pordenone, che diviene un modello di riferimento per gran parte del territorio. Non solo i nuovi abitanti vengono presto assimilati nel modo di vivere e anche di parlare, ma la “pordenonesizzazione” si diffonde tutto intorno, contagiando prima il conurbamento (Cordenons, Porcia, Roveredo in Piano); poi anche le altre località vicine, che si possono considerare satelliti del capoluogo, dove si sono riversate parte delle famiglie cittadine alla ricerca di case e appartamenti più economici o più spaziosi (Fontanafredda, San Quirino, Zoppola, Fiume Veneto); e anche le località frequentate abitualmente dai cittadini per lo svago (Aviano/Piancavallo e la Valcellina, compreso Maniago). In tutto questo vasto territorio, a partire dagli anni Settanta, le parlate friulane arretrano sempre più a fronte dell’avanzata del dialetto pordenonese.
Le nuove generazioni urbane
L’insediamento di migliaia di lavoratori dalle campagne negli anni Sessanta ha avuto conseguenze anche a lungo termine. I nuovi arrivati, infatti, erano costituiti soprattutto da persone giovani e di mezza età, spesso con famiglia. Le persone anziane restavano invece nei paesi d’origine. Ancora oggi (dati 2019) il 30% degli abitanti della città hanno tra i 40 e il 59 anni, mentre ad esempio a Claut, per riprendere il confronto con una delle località di origine, le fasce d’età più consistenti sono quella tra i 50 e i 59 anni (18%) e quella tra i 65 e i 74 anni (16%).
La città, dunque, al saldo finale, si è ritrovata non solo più popolata, ma anche più “giovane”. Negli anni Sessanta e Settanta nasce una nuova generazione di pordenonesi, socialmente integrata: mentre i loro genitori erano “arrivati” e quindi “ospiti”, loro sono “nati” e quindi “membri” della comunità. Una generazione urbanizzata e dinamica, desiderosa di esplorare nuove strade, di fare nuove esperienze.
Già ovunque nel mondo occidentale i giovani sono in fermento; ma a Pordenone lo sono in modo particolare, come non ci si aspetterebbe da una cittadina di periferia. In un contesto di questo tipo fioriscono iniziative d’avanguardia, specialmente in campo musicale.
Il Great Complotto e lo Stato di Naon
Nel 1977 fanno la loro comparsa i primi gruppi punk dai nomi decisamente trasgressivi, come HitlerSS o Tampax. Nomi che irridono al buon senso comune, coerentemente con la filosofia stessa della musica punk, che è una musica di ribellione e di capovolgimento. Il culmine del successo viene raggiunto due anni dopo, in un concerto tenuto addirittura a Londra, la capitale del movimento punk, nel quartiere di Portobello, quasi a sottolineare un collegamento diretto tra Pordenone e Londra.
Non si trattava però di gruppi strutturati, ma di tanti appassionati di musica, che erano disponibili a mescolarsi tra loro per produrre nuovi brani e tenere concerti “autogestiti”. Era il Great Complotto, una specie di galassia musicale (nel 1980 vedeva la luce l’album omonimo), che sfornava di volta in volta band-comete più o meno durature, ma sempre intercambiabili tra loro. Il fenomeno non durò molto a lungo, esaurendosi sostanzialmente poco dopo la metà degli anni Ottanta. Ma fu quanto bastò per diventare un modello unico in Italia, capace di suscitare interesse anche in Inghilterra. E anche per mettere in moto un meccanismo virtuoso, che una decina di anni dopo ha “partorito” nuovi gruppi, meno corrosivi (ma erano anche cambiati i tempi e le tendenze), eppure capaci di inserirsi nel mercato musicale nazionale, come i Prozac+ e i Tre allegri ragazzi morti.
A corollario del movimento punk, va ricordata anche il sorgere di un’iniziativa tra il goliardico e il provocatorio: l’istituzione dello stato libero di Naon. «Una creazione immaginaria – ha spiegato bene in un recente articolo il giornalista Andrea Ioime – parallela alla città reale e abitata da supereroi-rockstar. Una critica feroce del provincialismo, ma con tanto di bandiera, moneta propria, calendario, nazionale di calcio e regole scritte precise». Una città ideale dentro la città reale.
Gli anni Duemila
Il Duemila propone un nuovo (ultimo?) cambiamento. Ma questa volta non si tratta di qualcosa di unico; è invece un’evoluzione che accomuna Pordenone a tante altre località. È il consistente arrivo di immigrati dall’estero, che le ha fornito una connotazione multiculturale e multietnica. Il fenomeno, avviato sul finire degli anni Novanta, è proceduto a ritmo sostenuto fino al 2011, per poi conoscere una ridimensionamento conseguente alla grande crisi economica che ha minato il benessere italiano.
Non è (stato) un fenomeno omogeneo. Se è vero che allo stato attuale (2019) gli stranieri sono poco più di settemila e rappresentano il 14% della popolazione totale, è anche vero che molto è cambiato nella loro composizione: quindici anni fa erano soprattutto ghanesi e albanesi; oggi sono soprattutto rumeni. Diverso anche il loro ruolo economico: inizialmente quasi solo operai e addetti a mansioni di basso livello, oggi rappresentano una fetta interessante della piccola imprenditoria artigianale e commerciale.
E anche in questo caso, è già sorta una prima generazione di nuovi pordenonesi, non più arrivati, ma nati. Un nuovo cambio culturale è alle porte.