Una città fra Vienna e Venezia

È sempre un affascinante spartito ripercorrere gl’itinerari del passato: vogliamo provarci? Com’era dunque Pordenone agli albori della sua storia? 

All’interno delle mura modesti fabbricati dall’ordito di pietra s’alternavano a casupole di legno (dai fragili graticci intonacati), le coperture erano di tavolacci e di strame. Piaccia o non piaccia, era così, somigliava ad un rustico presepe e nel quartiere a ridosso del fiume ad una casba pittoresca e cenciosa (o almeno lo era sino all’incendio del 1318). Per i contemporanei – come scrissero i cronisti dell’epoca – fu un evento drammatico, per i posteri una provvidenziale opportunità, che determinò il radicale rinnovamento delle strutture urbane. 

Dalla porta “furlana”, che incombeva sul Noncello, si raggiungeva – attraverso una rampa piuttosto accidentata – quella che gli studiosi definiscono l’area “marciana”, il nucleo storicamente più prestigioso. A riqualificarlo dopo il devastante incendio contribuirono rilevanti interventi d’edilizia pubblica, il più significativo dei quali s’ebbe con l’ultimazione del campanile (1347), una sfumata trine di cotto «che al tramonto – osservò un poeta – s’arrossa come le foglie d’autunno». 

In precedenza era stata eretta la chiesa di San Marco (1278) con un’unica navata e tre cappelle absidali, secondo la sobria tipologia diffusa nell’occidente europeo dai Francescani.
La facciata rimase incompiuta (e lo è tuttora) salvo il portale del Pilacorte (1511), un capriccio di festoni e racemi che evoca in chiave provinciale le profane suggestioni della Rinascita. A delimitarne l’ampio sagrato fu anche eretto il palazzo civico (era l’anno 1291), la “bella loza” ricordata dal Sanudo, un gotico civettuolo tutto pinnacoli e trine.

Giovanni Antonio Pilacorte, Portale del Duomo di Pordenone (1511)

All’esterno dell’abitato – sul ciglio d’una scarpata lungo il fiume – sorgeva invece il castello, una munita cittadella protetta da un mastio imponente e circondata su tre lati dall’acqua. In epoca austriaca vi risiedeva con una guarnigione di lanzi il capitano imperiale. A dispetto di quel che scrissero taluni cronisti di fede marchesca i rappresentanti del sovrano raramente taglieggiarono la popolazione, furono al più responsabili di qualche bricconata, mai d’autentiche soperchierie. 

Era questo agli albori del Cinquecento il profilo della città – un guscio serrato in una guaina di mura – così lo colse il Kolderer (1509) nel celeberrimo disegno scovato da Giulio Testa all’Albertina di Vienna. Il profilo – come in una veduta a volo d’uccello – è tracciato a punta di penna con tratti graffianti e nervosi: guglie affilate come pinnacoli di marzapane, la mole compatta del castello, il torrazzo del campanile e, sullo sfondo, sfumata e cinerina la sagoma del monte Cavallo. 

Ma com’era nei primi secoli dopo il Mille l’assetto amministrativo? La penisola offriva un’immagine estremamente frammentata, un pulviscolo di piccoli potentati che si scannavano per la supremazia (spesso per la semplice sopravvivenza). 
Sul confine orientale il Patriarcato d’Aquileia costituiva il più vasto principato ecclesiastico d’Occidente, spaziando dall’Istria al Livenza. Solo Pordenone ed il suo distretto dipendevano da un sovrano d’Oltralpe, il duca di Stiria: una piccola e vivace enclave nel fragile tessuto patriarchino. La fine di quella dinastia scatenò gli appetiti di Ottocaro, re di Boemia, che occupò l’Austria e si annesse anche Pordenone. Fu una rapida meteora perché Rodolfo d’Asburgo se la riprenderà venticinque anni dopo (1282) e l’Impero la mantenne sino al 1508. 

Ma fermiamoci qui, è un guazzabuglio dinastico nel quale non è facile raccapezzarci, una matassa difficile da dipanare. A questo punto dobbiamo dedicare una breve digressione ad uno straordinario personaggio, frate Odorico, fra i tanti protagonisti della nostra storia uno dei più fascinosi ed avvincenti. Con lui siamo al crepuscolo dei secoli bui, albeggia ormai un’era nuova. Nacque nel 1265 (o giù di lì) a Villanova, una manciata di case attorno ad un piccolo oratorio fuori le mura, suddito di Ottocaro e figlio verosimilmente d’un lanzo boemo di stanza nella guarnigione. Indossato il saio francescano si diede all’attività missionaria nei Balcani e nel Levante, ove i Saraceni stavano smantellando le ultime fortezze crociate e fu quindi testimone della drammatica diaspora dei superstiti dispersi fra Cipro e le isole dell’Egeo. 

Nel 1318 egli affrontò il più impegnativo dei suoi viaggi sulla via della seta e delle spezie, l’Itinerarium ad Tartaros, una mirabolante avventura che gli sarebbe valsa la fama di cui gode tuttora. Da Pechino (la Khanbalic della dinastia mongola), ove rimase tre anni, rientrò nel 1330 e dettò le proprie memorie ad un confratello. 

Facciamogli grazia del latino pedestre in cui fu redatta la Relatio, è spesso stringata e frettolosa, non sempre attendibile (ma sol quando riferisce ciò di cui non fu diretto testimone) più che soddisfarla – scrisse uno storico – eccita la curiosità del lettore. D’altronde egli è figlio del suo tempo con un inesausta curiosità per le “terre incognite”, gli interessi, le superstizioni ed i pregiudizi (sempre duri da sradicare) d’un uomo del medioevo. La sua resta tuttavia una testimonianza – dopo il Milione di Marco Polo – cui molti attinsero e che gli studi più recenti tendono meritatamente a rivalutare. 

Ma torniamo ai nostri domestici itinerari sulle sponde del Noncello. In quest’estremo lembo dell’Impero – che s’affacciava come uno spalto sulle rotte adriatiche (la cancelleria viennese la definiva con orgoglio porta felix) – scendevano i mercanti alemanni a barattare ferro, argento e stagno con sale dell’Istria, spezie, broccati e damaschi d’Oriente. E a suggello d’una non effimera autonomia il duca d’Austria concesse ai sudditi pordenonesi anche i primi Statuti (1291), singolare mistura di democrazia oligarchica e di signoria feudale, in cui la prima avrebbe dovuto attenuare gli eccessi o gli arbitri della seconda. 

La nobiltà locale era per lo più d’estrazione mercantile e bottegaia: avvezza a viver nel fondaco o a trattar dal banco mantenne sempre un tratto alla mano, conciliante e bonario. Il nostro era quindi un vernacolo gotha, intraprendente e operoso, che non considerò mai la mercatura, cui doveva blasone e fortune, disdicevole al proprio rango. Non c’è da stupirsi quindi se dovendo scegliersi uno stemma vollero una porta spalancata sull’onde del mare, simbolo (a dispetto dell’araldica) d’intraprendenza mercantile. Quanto al popolo minuto era pago del necessario (anche perché il superfluo non avrebbe comunque potuto permetterselo) e non manifestò mai nella lunga storia della città propositi eversivi. 

Quasi tutti i centri antichi si svilupparono lungo un trafficato asse viario, il più semplice e lineare di tutti i sistemi insediativi. Così avvenne anche qui, l’abitato si snodava come un budello dal singolare assetto longitudinale dalla porta “furlana” (a ridosso del Noncello) a quella “trevisana” sul estremo opposto. 

Così la vide un osservatore smaliziato come il Sanudo «Pordenone… – scrisse nei suoi Itinerari (1483) – va in longo, s’intra da una porta e si ense per l’altra». La sua è una citazione di cui s’è largamente abusato, ma fra le fonti antiche non c’è di meglio, è stringata e concisa come una Guida Michelin. Come notò il cronista veneziano – sebbene la città «in mezzo di tutti i lochi della signoria nostra» appartenesse ancora agli Asburgo – aveva mantenuto una propria identità: «vi son furlani, niun tedesco». 

Accanto al porto sul Noncello sorgeva – fra taverne, fondaci, bische e bordelli – il quartiere più malfamato, la Codafora, ma come scalo era senz’altro ambito, per i commerci con la Dominante un fiume navigabile anche con scafi di robusta stazza costituiva una via privilegiata. Lo confermerà il geografo pordenonese Giuseppe Rosaccio (una sorta di Cagliostro che spaziava dalla medicina all’alchimia, dalla geografia all’occultismo): «vengono e vanno da Venezia barche assai grosse». 

Pordenone costituiva dunque un’enclave, dapprima nel frammentato tessuto del principato patriarchino e dopo il 1420 (con la dedizione del Friuli a Venezia) nella più organica struttura della Terraferma veneta. 
Da oltre un secolo prima d’annettersi questa marca di confine, che già allora vantava un’accentuata vocazione autonomistica, Venezia aveva esteso la propria influenza nell’entroterra continentale, ove s’accingeva ad allargare i suoi domini: avrebbe così compensato i perduti spalti del proprio impero marittimo. Pur essendo ancor sedotta dalle malie dell’Oriente (o forse appunto per questo) restava la più brillante, colta e cosmopolita capitale europea e tutte le province di Terraferma ne furono profondamente influenzate. 

Al fascino della Serenissima anche in epoca austriaca – lo testimoniano l’arte, l’architettura, gl’indirizzi culturali – neppur Pordenone si sottrasse. Drammatiche vicende fra Quattro e Cinquecento congiurarono però ad incrinarne lo sviluppo: avevano infierito la peste, le devastanti scorrerie turchesche, le razzie dei confederati di Cambrai. Ma a quei lutti e a tante rovine seguì – diremmo oggi – una sorta di new deal, un rinnovato “miracolo economico” , cui diede uno straordinario impulso soprattutto l’industria della lana. «Qui si fa il miglior traffico di panni – scriveva a fine secolo il solito Rosaccio (1595) – che in qualsivoglia altro luogo della Patria…». 

Ma nel frattempo anche l’assetto politico era mutato. Nel 1508 un venturiero umbro, Bartolomeo d’Alviano, venne investito da Venezia, che l’aveva sottratto all’Impero, del feudo di Pordenone. Come uomo d’armi lo era senz’altro di razza ed in un’epoca, in cui si combatteva soprattutto per il soldo, si mostrò diverso, a Venezia rimase fedele nella buona e nella cattiva sorte (e lei a lui). Con i suoi soldati – ai quali amava mescolarsi – divideva stenti e disagi, nei bivacchi e nelle taverne gli chansonniers ne avevano fatto l’idolo delle proprie ballate. 

Tra tanti capitani digiuni di cultura e di sintassi, spacconi e attaccabrighe egli si staccava di netto: dopo essersi guadagnato sul campo fama d’energico caudillo spalancò il suo salotto a letterati ed artisti, li bandì e si lasciò blandire. Volle insomma calzare i panni del principe, aveva evidentemente la stoffa del mecenate e l’intuito del pigmalione. 

Dopo le fatiche sul campo – alla testa dei suoi temibili tercios aveva sbaragliato le truppe dell’imperatore Massimiliano in Cadore, le stanò dall’assedio d’Osoppo, fu tra i grandi protagonisti della battaglia di Melegnano -Bartolomeo amava soggiornare nel castello di Pordenone, ove ospitò personaggi maiuscoli: Aldo Manuzio, il Bembo, il Fracastoro e il Navagero ed altri ancora. E i poeti lo ricambiavano, cantando le nimphae naucellides dietro le quali si celava qualche procace e disponibile bellezza. D’altronde – quando Pordenone fu assegnata da Venezia all’Alviano – già vi spirava un clima colto e raffinato. L’intellighentia locale gravitava attorno ai Mantica, una famiglia di solido censo, nostalgica dell’ancien regime, che continuò a rimpiangere il tollerante governo imperiale. Pochi come loro concorsero alla riqualificazione del centro cittadino, i loro palazzi – nei pressi della “bella loza” – costituivano un’insula d’ineguagliato prestigio con le facciate impreziosite da affreschi sontuosi. 

I Mantica nella vita cittadina tennero sempre un ruolo da protagonisti, munifici e spendaccioni vollero una dimora che riflettesse i propri successi; da astuti e spregiudicati mercanti conciliavano la politica – servendo nelle cariche civiche e nelle ambascerie – con il portafoglio. E le loro case a distanza di secoli ci parlano ancora per immagini. Da consumati uomini di mondo spalancarono i propri palazzi ad artisti, letterati e parassiti (per quanto non fosse facile distinguere gli uni dagli altri), furono insomma i mentori della cultura cittadina, seppero blandirla ed accattivarsela. E piace pensare che su quelle facciate abbia lasciato un saggio precoce del suo genio anche il nostro Giovanni Antonio. 

Dopo la morte di Bartolomeo nel 1515, la responsabilità del governo – il figlio Livio aveva appena tredici mesi – toccò alla vedova Pantasilea Baglioni. Apparteneva ad una grande famiglia (i suoi erano stati spodestati dalla signoria di Perugia), affrontò con dignità una precoce vedovanza e nel governo della città si comporto non tanto da first lady ma da intelligente ed oculata massaia. Protesse infatti l’industria della lana, il fiore all’occhiello dell’economia cittadina, favorì i commerci, incrementò lo scalo fluviale.

Subentrato alla madre, Livio (detto familiarmente Chiapin) si guadagnò le simpatie dei sudditi ripristinando gli antichi privilegi municipali e suscitò parecchie aspettative, che furono ben presto deluse. Roso dal tarlo delle armi e dal desiderio d’emulare le gesta paterne, morirà combattendo per il Francesi in flore juventutis, come lo pianse nella chiesa d’Acquasparta la sorella Isabella: aveva solo ventitrè anni. Provò sincero cordoglio anche un personaggio cinico e mordace come l’Aretino: «o garzone generoso ed ardito» scrisse di lui.

Casa Bernardi, particolare della facciata.

Con la morte di Livio la città tornò a Venezia, mantenendo tuttavia – rispetto la Patria del Friuli – una marginale autonomia sulla scorta dei privilegi concessi dall’Impero in età comunale e nel castello s’insediò un provveditore veneto.

Ma torniamo ad affacciarci all’antica Contrada. Con i suoi fascinosi rabeschi essa offre al visitatore una squillante galleria, che trova la sua quinta naturale nelle calde tonalità del palazzo civico. Questa festosa suite d’apparati policromi fa di Pordenone tuttora nel suo nucleo storico una città picta, che non ha l’eguale nelle Venezie. I più antichi decori ripropongono ingenue campiture a finto mattone o a losanghe bianco-rosse, servile omaggio dei sudditi friulani al lontano signore d’Oltralpe. E numerosi si rinvengono sulle facciate gli stemmi dell’Austria. Tuttavia fu solo in età gotica matura ch’essi si sbrigliarono in trame sempre più spigliate ed in sofisticate orditure a tappeto. Con la Rinascita le quinte della Contrada – due ininterrotte cortine porticate – si sfondarono in smaglianti scenografie impreziosite da fregi, festoni, scorci prospettici: un estroso tessuto pittorico in cui talora s’inserirono brani di soggetto mitologico. Nell’alveo di questa tradizione s’inserisce – permeandola d’umori sanguigni e di tensioni gagliarde – Giovanni Antonio de Sacchis, più noto come il Pordenone. Specialista insuperato nell’affresco (prima che alla ribalta s’affacciasse il Veronese non ci fu fra i veneti miglior freschista di lui) non è solo il massimo artista friulano d’ogni tempo, ma resta soprattutto uno dei grandi protagonisti di quel secolo d’oro che fu il Cinquecento veneto. Nella nostra storia insomma non v’è figura che regga il confronto, che giganteggi quanto lui. D’abitudini ruvide e spartane condusse un’esistenza randagia – da globetrotter del pennello – fra il Friuli natio, Venezia, Roma, l’Emilia, la Lombardia. Si fece dunque da sé, senza dar tregua e senza darsene, spalancando i propri interessi culturali alle più svariate suggestioni: da un’ iniziale adesione al linguaggio lirico e contemplativo di Giorgione e al vaporoso colorismo di Tiziano, s’accostò poi – complice un soggiorno nell’Urbe – al magniloquente plasticismo del Buonarroti, rielaborato con un timbro concitato e drammatico. Divenne così l’enfatico precursore della pittura prebarocca e di maniera, guadagnandosi l’appellativo di pictor modernus.

Il nostro Giovanni Antonio fu un artista conteso e alla moda e all’apice del successo non poteva che approdar a Venezia, atteggiandosi ad antagonista dello stesso Tiziano; e lì godette di solidi agganci e d’influenti protezioni, sembra che anche il doge Gritti avesse un debole per lui (che si sdebitò con un discusso ritratto).

Giovanni Antonio resta un personaggio dal fascino inquietante, vigoroso e sanguigno, spavaldo e manesco, lesto di mano e di pennello. In un ritratto a tutto sbalzo molti anni fa lo accostai a Caravaggio, d’altronde lui stesso – dovendo scegliersi un compagno con cui imbrancarsi – l’avrebbe fatto. E non solo per affinità di temperamento – erano entrambi d’appetiti gagliardi e di sbrigliata fantasia – né per quella loro vita scapestrata e tinta d’ombre sospette, ma perché furono (sia pur in una diversa temperie storica) gl’incompresi profeti d’un rivoluzionario “stil novo”.

Casa Gregoris-Bassani, particolare della facciata (foto Ciol)

Con la fine della dominazione liviana inizia quella che gli storiografi definiscono la pax veneta, una lunga stagione di tranquillità e di benessere protrattasi per oltre due secoli. Il clima tuttavia era profondamente mutato: l’antica intraprendenza s’era appannata, i traffici fluviali inariditi, i ceti dirigenti divennero una casta soffocata da rigide gerarchie, che scoraggiava ogni anelito di ricambio, gelosa dei propri privilegi (e del diritto d’abusarne).

Dovremo attendere il Settecento per rianimare questo plumbeo caleidoscopio con le crepitanti alchimie del barocco e le estenuate leziosità del rocaille in un clima godereccio e libertino, in quel dorato crepuscolo che segnò la fine della Serenissima fra incipriate galanterie, fastose dissolutezze e domestiche ciacole (alla Goldoni).

Come un filo d’Arianna questo nostro trasognato percorso s’è dipanato nei secoli, siamo passati dallo sfumato profilo del Kolderer all’accidentato paesaggio attuale con le sgrammaticate architetture ed i disinvolti bricolage del secondo Novecento. Ma la città – nonostante lo sciattume dell’architettura moderna che incombe sul centro storico – rivela ancora in tanti suoi scorci una turgida tavolozza d’ acque e di verde, che continua a suscitare magate suggestioni.


Articolo di Alberto Cassini
Dal numero monografico Pordenone, città d’acqua e di cultura

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